domenica 29 giugno 2008

LA PARETE - Marlen Haushofer

La parete è il diario di una donna che a seguito di un evento inspiegabile - una parete trasparente che circonda alcune montagne - rimane isolata dal resto del mondo. L 'autrice descrive con intensa attenzione la sua modificazione interiore e fisica nel vivere un quotidiano denso di fatiche e di paure, il suo stare all'essenza delle cose e riscoprire un'autonomia e una valorizzazione di sé quasi dimenticata. Nella solitudine si apre all'amore per la natura, per gli animali, per se stessa abbandonandosi a nuove gioie, sensazioni, emozioni che sente profondamente sue; nella solitudine rivisita il suo passato, i ricordi più belli ma anche il malessere e l'estraneità che già esistevano ma solo ora affiorano e la portano a una consapevole pacificazione.

7 commenti:

assorbenti ha detto...

L'incontro per la discussione di questo libro si terrà venerdì 11 luglio ore 19.00 con la solita formula della cena al sacco. Per
il luogo dell'incontro viene riconfermata casa di Alessandro, salvo che non sia disponibile il giardino condominiale di Arianna ad Opicina

Anonimo ha detto...

Le proposte per il prossimo mese sono:

Magda Szabò
La porta

È un rapporto molto conflittuale, fatto di continue rotture e difficili riconciliazioni, a legare la narratrice a Emerenc Szeredás, la donna che la aiuta nelle faccende domestiche.
La padrona di casa, una scrittrice inadatta ad affrontare i problemi della vita quotidiana, fatica a capire il rigido moralismo di Emerenc, ne subisce le spesso indecifrabili decisioni, non sa cosa pensare dell'alone di mistero che ne circonda l'esistenza e soprattutto la casa, con quella porta che nessuno può varcare. In un crescendo di rivelazioni scopre che le scelte spesso bizzarre e crudeli, ma sempre assolutamente coerenti dell'anziana donna, affondano in un destino segnato dagli avvenimenti piú drammatici del Novecento.
Pubblicato in Ungheria nel 1987, ma in qualche modo disperso negli anni della transizione politica, La porta è il romanzo che ha rivelato la piú grande scrittrice ungherese contemporanea.
“La Porta” scritto dall’ungherese Magda Szabó è la storia di un rapporto tra due persone che sono una l’opposto dell’altra, di un rapporto molto conflittuale e difficile. Il personaggio principale è sicuramente Emerenc, una donna delle pulizie, un personaggio che si rivela fuori da ogni consuetudine. E’ una donna delle pulizie, una lavoratrice infaticabile. Ma al contrario di quello che succede normalmente, prima di accettare un lavoro era lei che decideva di “procurarsi delle informazioni” sui suoi datori di lavoro e non viceversa. “Io non lavo i panni sporchi al primo che capita”. La dignità di una persona, insomma, non si svende, qualsiasi lavoro si faccia.
Emerenc si prenderà cura della scrittrice e di suo marito per oltre vent’anni, ma “nei primi cinque stabilì una distanza che non potevamo oltrepassare, precisa come se fosse misurata con uno strumento”
E’ lei che decide cosa vuole o non vuole fare, quando e come farlo, dimostra subito di avere le sue idee dettate non dalla lettura e dallo studio, ma dalla sua incredibile storia di vita. Nessun regime politico in tutta la sua vita trascorsa in Ungheria in tempi difficili è riuscita a intimidirla, nessun “educatore del popolo” ha saputo metterla a tacere o impedirle di fare quello che lei riteneva giusto fare.
La sua storia emerge pian piano, man mano che il libro procede. Ma una cosa è subito chiara: la sua esistenza è stata segnata da esperienze che lasciano ferite profonde, indelebili e come tutte queste persone non si lascia facilmente penetrare. La porta (titolo del libro) è il simbolo di questa chiusura al mondo, una porta che nessuno può e deve valicare, lo scrigno segreto in cui chi ha sofferto molto conserva il proprio dolore e nasconde la propria fragilità. A lei e a tutti quelli come lei che hanno avuto una vita difficile bisogna sapersi accostare in punta di piedi, bisogna conoscere la capacità di aspettare e avere un profondo rispetto.
Emerenc offrirà, a modo suo, la sua amicizia, la sua dedizione alla scrittrice ed essa scoprirà nella relazione con questa donna che l’amicizia, l’amore è “impegno” e non possiamo a priori decidere come si debba esprimere. “Oggi – dice la scrittrice – ho capito una cosa, che allora ancora ignoravo: una passione non si può esprimere pacatamente, disciplinatamente, morigeratamente, e nessuno può definirne la forma al posto dell’altro”.
L’amore che lega queste due persone è conflittuale proprio perché l’incontro vero è quello che sa imparare anche e soprattutto dallo scontro; un conflitto però che favorisce la conoscenza dell’altro e insegna a mettersi in discussione aprendo nuovi spazi mentali ed affettivi. Emerenc è capace di grande amore, di un amore, però, fuori dalle consuetudini, di un amore che spiazzerà più volte la scrittrice. Chi vuole amarla deve saperla rispettare, deve saper entrare nella sua vita quando e come decide lei. Perché l’amicizia non è intrusione, ma attenzione, non è dare continui consigli dall’alto di una presunta superiorità, ma saper ascoltare, Non è accondiscendenza, ma presenza quando questa si rende necessaria. Emerenc del resto scompare e riappare, ma al momento buono sa esserci, conosce la compassione. La scrittrice questo non sempre lo sa fare: “Oggi, mentre scrivo a macchina queste righe, sento che in quel momento, decisi il suo destino perché dentro di me l’abbandonai. Smisi di tenerle la mano”.
Già, tenerle la mano…, più che parlare come dice la Zambrano saper “stare in presenza”, conoscere quel linguaggio che riempie i vuoti e affronta le solitudini snza fretta e con grande pazienza…
“Emerenc era disposta al sacrificio, a lei riusciva spontaneo tutto ciò che io dovevo impormi con un certo sforzo, e non importava che agisse inconsapevolmente, la bontà di Emerenc era naturale, io, invece, mi ero educata ad esserlo, mi ero obbligata col passare del tempo a rispettare alcune norme etiche. (..) La mia morale non era altro che disciplina, il risultato dell’allenamento al quale mi avevano sottoposto il collegio, la scuola, la famiglia”.
Emerenc sa amare, invece, in modo naturale, senza forzature e amare per lei e “sapersi prendere cura”, è un amore semplice e spontaneo che diffida di ogni rituale, che non si appella a nessun Dio. Ed la sua spontaneità che smaschera continuamente i nostri gesti ipocriti.
“Cosa crede, che Cristo, che Dio, di cui parla come se li conoscesse personalmente, concedano la salute a così basso prezzo? Per una settimana della sua devozione io non darei un soldo bucato”.
La scrittrice pian piano imparerà da quella donna molto della vita e della realtà, anche se a volte riluttante. E alla fine cercherà di salvarla dalla morte ma capirà che Emerenc, come ogni essere umano, “non ha bisogno di una vita qualunque. Emerenc ha bisogno della sua vita” e quella ormai non c’era più, non avevano saputo rispettarla fino in fondo.
Alla scrittrice resta un’amara conclusione che a volte “è impossibile accomodare il destino degli esseri umani che non trovano posto nella vita degli altri”.

Isabel Allende
Inés dell'anima mia

"Quando mi guardo nello specchio d'argento, il primo regalo di Rodrigo per le nozze, non riconosco la nonnina coronata da capelli bianchi che a sua volta mi guarda. Ma chi è questa, che si burla della vea Inés? La esamino da vicino nella speranza di trovare in fondo allo specchio la bambina con le trecce e le ginocchia sbucciate che ero, la ragazza che scappava nei frutteti per fare l'amore di nascosto, la donna matura e appassionata che dormiva abbracciata a Rodrigo de Quiroga. Sono lì, appostate, ne sono certa, ma non riesco a intravederle."

Uno straordinario romanzo che raccoglie, come dev'essere per l'opera matura di uno scrittore, tutti gli elementi che hanno caratterizzato la narrativa dell'Allende in questi anni. Dal fantastico all'epopea storica, dalla centralità del femminile all'apertura al mondo senza reticenze né timori.

Inés dell'anima mia è Inés de Suarez, l'unica donna spagnola che ha partecipato alla Conquista del Cile nel 1840 accompagnando (ma non certo supinamente) Pedro de Valdivia, il suo amante. Parliamo di una donna moderna, coraggiosa e appassionata.
Per una profonda considerazione della propria dignità di donna, Inés ha prima attraversato l'oceano, dalla Spagna all'America seguendo le orme del primo marito, Juan de Málaga, un uomo infedele, scansafatiche e inaffidabile ma affascinante e passionale; poi viaggiato (come si poteva fare tra pericoli di ogni genere negli anni Trenta del Cinquecento) nel continente sudamericano sino in Perù e, avuto notizia della morte del marito, anziché ritornare sui suoi passi verso la Spagna (come suggeritole addirittura dal terribile Pizarro, vigliaccamente colpevole dell'assassinio di Juan), ha varcato il deserto di di Atacama arrivando in Cile al fianco del suo amante Pedro de Valdivia e del suo futuro marito, Rodrigo de Quiroga, e affrontando la furia degli elementi, la natura ostile e, naturalmente, gli indigeni, corraggiosi e combattivi, come del resto si dimostra essere la nostra protagonista, quasi del tutto dimenticata nei libri di storia che, non a caso, sono scritti da uomini.
Come la stessa autrice ha avuto modo di sottolineare, proprio l'assenza di grandi riferimenti a questa figura femminile nelle documentazioni d'archivio, le ha permesso di immaginarla seguendo la sua fantasia, dando così vita a un personaggio con radici storiche ma con rami proiettati nel fantastico, secondo il gusto e la passione dell'Allende.

Sicuramente Inés è una donna vincente, non solo coraggiosa ma determinata e volitiva, e indubbiamente fortunata. Riesce a superare situazioni pericolose e violente, ottenendo un certo benessere economico, ma anche potere, terra (è tra i fondatori di Santiago) e amore.
È una grande storia di passione, immaginaria ma non troppo, di una donna del XVI secolo energica e combattiva, ma è anche la ricostruzione della Conquista spagnola del Cile vista attraverso gli occhi degli occidentali e in particolare di una donna spagnola e radicatamente cattolica ma così aperta e critica da sembrare (forse troppo?) una femminista del Novecento.
Ricordiamo le parole di Isabel Allende tratte da un'intervista incentrata su questo romanzo: "io non credo che tutta la storia sia vera perché la scrivono dopo, la scrivono gli uomini e, soprattutto, la scrivono i vincitori. La storia ufficiale è sempre un lato, un aspetto della realtà, non tutta."
La Allende si è presa il compito di raccontarne la parte nascosta, non dimenticando neppure il punto di vista degli indigeni, le cui varie civiltà e le cui personalità entrano a far parte della vicenda così come lo fanno gli uomini mandati dalla Spagna a combattere e conquistare quei luoghi, per la maggior parte ostili anche dal punto di vista climatico e geografico. Una grande epopea parzialmente sconosciuta che riviviamo intensamente in queste pagine.

Le prime pagine
Sono Inés Suàrez, suddita nella leale città di Santiago della Nuova Estremadura, Regno del Cile, anno 1580 di Nostro Signore. Della data esatta della mia nascita non sono certa ma, stando a mia madre, venni alla luce dopo la carestia e la terribile pestilenza che devastarono la Spagna alla morte di Filippo il Bello. Non credo fosse stata la scomparsa del re a provocare la peste, come diceva la gente vedendo passare il corteo funebre che lasciava dietro di sé per giorni, sospeso nell'aria, un odore di mandorle amare, ma non si può mai dire... La regina Giovanna, ancora giovane e bella, percorse in lungo e in largo la Castiglia per oltre due anni portandosi appresso quel feretro che apriva di tanto in tanto per baciare le labbra del marito, nella speranza che risuscitasse. A dispetto degli unguenti dell'imbalsamatore, il Bello puzzava. Quando io venni al mondo, la sventurata regina, pazza da legare, era già stata reclusa nel palazzo di Tordesillas insieme al cadavere del consorte, e ciò significa che ho sul groppone almeno una settantina di inverni e che prima di Natale mi toccherà morire. Potrei dire che è stata una gitana, sulle rive del fiume Jerte, a pronosticare la data della mia morte, ma sarebbe una di quelle falsità cui si da forma nei libri e che per il fatto di essere stampate sembrano vere. La gitana mi predisse semplicemente una lunga vita, genere di augurio che si fa a chiunque in cambio di una moneta. E il mio cuore frastornato ad annunciarmi la prossimità della fine. Ho sempre saputo che sarei morta anziana, in pace e nel mio letto, come tutte le donne della mia famiglia; per questo non ho esitato ad affrontare molteplici pericoli, dal momento che nessuno se ne va all'altro mondo prima che sia giunto il suo momento. "Tu andrai morendo vecchietta, non prima, señoray" mi tranquillizzava Catalina nel suo affabile castigliano del Perù quando il galoppo insistente che sentivo nel petto rni scagliava a terra. Ho dimenticato il nome in quechua di Catalina e ormai è tardi per domandarglielo, visto che l'ho seppellita nel patio di casa mia molti anni fa, ma sono assolutamente certa della precisione e della veridicità delle sue profezie. Catalina entrò al mio servizio nell'antica città di Cuzco, gioiello degli inca, all'epoca di Francisco Pizarro, quell'audace bastardo che, secondo le male lingue, in Spegna accudiva i maiali e finì per diventare marchese governatore del Perù, sfiancato dalla sua stessa ambizione e dai numerosi tradimenti. Ironia della sorte, in questo Nuovo Mondo, non sono in vigore le leggi della tradizione e tutto è aggrovigliato: santi e peccatori, bianchi, neri, mulatti, in-dios, meticci, nobili e braccianti... A chiunque di loro può succedere di trovarsi in catene, marchiato col ferro incandescente, e che la fortuna poi lo innalzi di nuovo. Ho vissuto più di quarant'anni nel Nuovo Mondo e ancora non mi sono abituata al disordine, benché io stessa ne abbia beneficiato, dato che, se fossi rimasta nel mio paesino d'origine, oggi sarei un'anziana qualsiasi, povera e cieca per il tanto cucire pizzi alla luce di una lanterna. Là sarei Inés, la sarta della strada dell'acquedotto. Qui sono dona Inés Suàrez, signora tra le più influenti, vedova dell'eccellentissimo governatore don Rodrigo de Quiroga, conquistatrice e fondatrice del Regno del Cile.

Anonimo ha detto...

ancora proposte:


Frank McCourt
Le ceneri di Angela

"Non capita spesso che la passione, condivisa da innumerevoli lettori, per il libro di uno sconosciuto si manifesti con tanta, travolgente, immediatezza. E dire che Frank McCourt, un sessantenne al suo esordio letterario, aveva previsto che ""Le ceneri di Angela"" sarebbe stato definito ""come per lo più avviene con i libri irlandesi di memorie, 'incantevole e lirico'"" e che avrebbe avuto come unico esito un certo numero di ""brevi e simpatiche recensioni"". Ma che cosa incontriamo nelle pagine delle ""Ceneri di Angela""? La storia di ""un'infanzia infelice qualunque, e un'infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora"". Siamo negli anni fra le due guerre e le travagliate vicende coinvolgono una famiglia così misera che può guardare dal basso la povertà, fra un padre perennemente ebbro e vociferante contro il mondo e gli inglesi e i protestanti e una madre che sbrigativamente trascina la sua tribù verso la sopravvivenza. Materiale pregiato per ogni sorta di patetismo. E invece qui avviene uno stupendo rovesciamento. Tutto ci arriva attraverso gli occhi e la voce del protagonista mentre vive le sue avventure. Questo ragazzino indistruttibile, sfrontato, refrattario a ogni sentimentalismo, implacabile osservatore - come solo certi bambini sanno esserlo -, crea con le sue parole, con il suo ritmo, un prodigio di comicità e vitalità contagiose, dove tutte le atrocità, pur senza perdere nulla della loro spesso lugubre asprezza, diventano episodi e apparizioni di un viaggio battuto dal vento verso una terra promessa che sarà, nei sogni infantili di quegli anni come in quelli del Karl Rossmann di Kafka, l'America."

Anonimo ha detto...

ancora una proposta:

Edwin A. Abbot
flatlandia - Racconto fantastico
a più dimenisioni

Il potenziale romanzesco della geometria, come di ogni altra disciplina rigorosa, è enorme. Il reverendo e pedagogo Edwin Abbott (1838-1926), che per molti tratti è avvicinabile al suo contemporaneo Lewis Carroll, ne ha dato una dimostrazione memorabile in questo racconto. Mondo bidimensionale abitato da segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli, la Flatlandia (o Paese del Piano) ci viene descritta con perizia etnologica e candido humour da un suo abitante, un eccellente Quadrato. In quel mondo, le gerarchie sono immediatamente evidenti: si passa dai volgari e spigolosi Triangoli (gli operai), ai più rispettabili Quadrati e Pentagoni (i professionisti) e ai nobili Poligoni, che si approssimano indefinitamente ai Circoli (i sacerdoti), nei quali la bruta natura angolare è del tutto annullata. Le donne sono Segmenti, e implicita nella forma è la loro natura bassa e infida, ma supremamente potente e temibile, che viene illustrata in alcune pagine di esilarante misoginia. Siamo introdotti alla complessa legislazione e agli insoluti problemi della Flatlandia; veniamo a conoscere la storia spesso drammatica del paese. E infine assistiamo agli emozionanti incontri del Quadrato narratore con il mondo unidimensionale della Linelandia (o Paese della Linea) e con la sconvolgente realtà dello spazio tridimensionale, scoperta attraverso il dialogo con una Sfera. Si rivela a questo punto la sottigliezza speculativa del libro. Il lettore tridimensionale è partito da una posizione di onnisciente superiorità: ció che per gli abitanti della Flatlandia è oscuro e inestricabile, appare a lui con assoluta evidenza, cosl come il nostro mondo, oscuro e inestricabile, potrebbe apparire a una maligna divinità che lo avesse creato come un giocattolo imperfetto. Ma questo meccanismo di mondi concentrici, incompatibili e incomunicanti, in realtà mette in dubbio i nostri stessi punti di riferimento, e il libro si chiuderà con la inquietante ipotesi di una Quarta Dimensione. In un gioco di specchi, questa ultima supposizione ci fa intendere che il nostro mondo tridimensionale è probabilmente osservato da un mondo ulteriore con la stessa superiorità e indifferenza che noi mostriamo verso gli abitanti della Flatlandia, e la prospettiva si apre cosi su una molteplicità di mondi diversamente ciechi e ignari, incapsulati l'uno nell’altro. Non è mancato chi ha voluto vedere nel racconto di Abbott una sorprendente anticipazione della teoria einsteiniana, e infatti il libro è diventato ghiotta lettura di matematici e scienziati. Ma Flatlandia è un universo fantastico, minuscolo e perfetto e, come tale, resta innanzitutto un esercizio inesauribile dell'immaginazione.

Anonimo ha detto...

Complimenti gabriella per le schede

Anonimo ha detto...

Segnalo una recensione de "La parete" pubblicata sul mensile Konrad, a firma di Luisella.
http://www.konradnews.it/pdf_riviste/6_2008.pdf

La trovate a pagina 13.

Complimenti alla nostra redattrice

assorbenti ha detto...

La
discussione è stata particolarmente animata in quanto la lettura de "La parete" di Marlen Haushofer ha suscitato diverse interpretazioni e
diverse sensazioni. Da un lato c'è stato chi ha trovato rassegnazione
ma serenità nell'atteggiamento della protagonista, chi invece ha
stigmatizzato il distacco della donna dagli altri esseri umani, sia nei ricordi (es. le figlie) che nell'unico incontro con un sopravvissuto alla catastrofe provocata dall'apparizione della misteriosa parete. In particolar modo, l'episodio finale dell'uccisione dell'uomo è stato
visto dai partecipanti in modi molto diversi: difesa da un uomo
crudele, reazione impulsiva ad un'aggressione, reazione eccessiva ad un atto (quello del'uomo) prodotto dalla necessità di procurarsi del cibo, drammatica sequenza finale in cui entrambi (uomo e donna) sono vittime
delle circostanze... Il libro sembra prestarsi a diverse modalità di lettura e proprio questo lo rende particolarmente interessante.
Altri spunti di discussione hanno riguardato: il rapporto con la natura (giudicato all'unanimità realistico e non idealizzato), le riflessioni sul vivere in società, il rapporto con gli animali, la dicotomia maschile/femminile. Ulteriori riflessioni sono nate dai confronti individuati, relativamente alla condizione di unico essere umano sopravvissuto sulla terra, con "La nube purpurea" letta tempo fa nel
gruppo e, in riferimento all'abbraccio totale e fatale con la natura, con il film "Into the wild".